Saman Abbas e quelle donne violate che facciamo finta di non vedere

Saman, scomparsa e forse uccisa per non aver sposato l’uomo che il padre desiderava per lei. Ma anche
Hina, uccisa per aver disonorato la famiglia. Sono storie su cui la sinistra troppo spesso tace, lasciando
spazio alla destra xenofoba e alla sua narrazione. Col risultato che a queste donne violate non pensa
nessuno.
Saman Abbas, la ragazza diciottenne scomparsa da oltre un mese dopo essersi opposta alla decisione
imposta dai genitori di sposare un uomo, è l’ennesimo episodio di matrimonio forzato in Italia. Storie di
spose bambine o poco più, violenze e diritti negati, barbarie di fronte alle quali la sinistra guarda altrove, il
liberal-progressismo perde la tenacia che riserva alla legge Zan, il femminismo si apre al dibattito interno, e
tutt’intorno si tace per timore di essere tacciati di razzismo, colonialismo culturale, eccetera. E così si
lascia campo libero alla propaganda manipolatoria della destra, che raccoglie voti approfittando della paura
della sinistra di perderne. Ogni tentativo di dibattito sano e laico: perso.
E tuttavia, se lotta al patriarcato deve essere, allora bisogna lottare anche per Saman Abbas, nella speranza
che sia ancora viva malgrado le ipotesi degli inquirenti, perché un matrimonio combinato è violenza,
barbarie. E nella civilissima e liberale Italia, stando ai dati dell’attivista e studiosa Tiziana Dal Pra, sono
almeno un migliaio all’anno i matrimoni combinati all’interno delle comunità straniere che risiedono sul
territorio.
Se parità di genere deve essere, allora avremmo dovuto tutelare anche Shahnaz Begum, uccisa a sassate in
provincia di Modena dal marito per aver difeso la figlia Nosheen che si è opposta a un matrimonio imposto
ed è riuscita a sfuggire al fratello che perciò voleva ucciderla.
Se emancipazione femminile deve essere, allora avremmo dovuto tutelare anche la libertà di “andare in un
parco e bere birra” di Hina Saleem, uccisa dal padre perché ritenuta da lui e dalla comunità pakistana
bresciana colpevole di avere “disonorato la famiglia”. “In Pakistan non c’è discoteca, non c’è libertà per la
donna” ha poi detto il padre intervistato in carcere. È un bene o un male? “È un bene per la donna”.
Condannato all’ergastolo, dalla sua cella l’uomo dice di volere ancora bene alla figlia che ha ammazzato e
sepolto in giardino. L’11 agosto 2007 in via Marconi a Hina è stato intitolato un Centro di salute
internazionale e medicina transculturale” dell’Asl di Brescia, peccato che i morti dei nomi delle vie non se ne
facciano nulla.
D’altro canto è evidente che il tema del diritto interculturale, prima che mediatico, è anzitutto giuridico, e i
problemi affrontati dalle Corti in relazione ai cosiddetti “clash culturali” che si verificano ogni giorno
all’interno di una società multietnica sono tutt’altro che semplici, ma pieni di contraddizioni. Prendiamo il
caso eclatante del doppio registro delle mutilazioni sui minori. In Italia vale il principio generale secondo
cui gli atti dispositivi del proprio corpo sono vietati quando producano delle lesioni permanenti (at.5 c.c.),
salvo rare eccezioni (donazione della cornea, del rene, eccetera). Se da un lato, però, le mutilazioni sui
genitali femminili sono sanzionate dal codice penale con pena base dai 4 ai 12 anni di reclusione (art. 583
bis), la circoncisione, che in Germania è fuori legge dal 2014, in Italia non è mai stato oggetto di serio
dibattito culturale. Perché? Perché considerato lecito sulla base di un dato culturale. Cosa rende un dato
culturale neutro o lesivo per i diritti dell’individuo? Qui sta il difficile, e fior di giuristi, sociologi e antropologi
ci sbattono la testa ogni giorno, caso per caso.
Quel che è certo, però, è che nel nostro circumnavigare senza mai affrontare il tema dei diritti delle donne,
tutte, incluse quelle appartenenti alle comunità islamiche, in questa nostra difficoltà a stigmatizzare il
patriarcato e la religione quando non sono occidentali, in questo nostro silenzio colpevole, c’è una piaga
purulenta che non riusciamo a sanare.
E non è strano, perché lì, in quella piaga, nel corpo di Saman, Hina, e delle altre giovani donne, convergono
una molteplicità di questioni che non è facile tenere in equilibrio: relativismo culturale, libertà di
espressione, modernità, tolleranza, parità di genere, razzismo, sensibilità culturali, universalismo e
culturalismo, ordine pubblico e sicurezza, impotenza dei presidi culturali, che molto fanno con i figli degli
immigrati in Italia a partire dai banchi di scuola e poco, ancora, fanno con i loro genitori in termini di
scambio e integrazione.
Aprire un varco tra le tifoserie, sgombrare il campo dai sovranisti come dagli esterofili acritici, affrontare a
muso duro oscurantismo e patriarcato, qualunque sia lo stampo culturale, senza cedere un passo al
pregiudizio, e tutelare i diritti delle donne, tutte, anche quando le sentiamo lontane e diverse da noi.
Nessuno ha mai detto che vivere, lottare, progredire sia semplice, non perciò si smette di farlo.