Matteo Messina Denaro è morto oggi, il boss aveva 62 anni

Otto mesi dopo l’arresto che ha tanto preso spazio sulle prime pagine dei giornali, non solo italiani, Matteo

Messina Denaro è morto nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore de L’Aquila.Il capomafia di

Castelvetrano era stato portato nel supercarcere aquilano dove è stato sottoposto alle cure per il cancro al

colon, seguito dall’equipe dell’Oncologia dell’ospedale de L’Aquila, curato in cella. Un mese fa, dopo due

interventi, la situazione è precipitata e ne è stato disposto il ricovero nel reparto detenuti del nosocomio.

Negli ultimi giorni con il peggiorare delle condizioni il capomafia è stato prima sottoposto alla terapia del

dolore, poi sedato. Le visite dei pochi familiari ammessi le scorse settimane sono state sospese.

Messina Denaro, però, ha potuto riconoscere la figlia Lorenza Alagna, avuta durante la latitanza e le ha dato

il suo cognome. E lei lo ha assistito nelle ultime ore. Dall’arresto il padrino è stato interrogato più volte dai

pm di Palermo precisando, fin dal primo incontro, che non avrebbe mai collaborato con la giustizia. Il boss,

autorizzato a incontrare i familiari stretti e il suo avvocato, la nipote Lorenza Guttadauro, non ha però mai

potuto vedere la sorella, Rosalia Messina Denaro, il suo alter ego, arrestata nei mesi scorsi per mafia. 

“Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia“ così durante

un interrogatorio di fronte ai magistrati di Palermo, oggi reso pubblico, perché inserito nella documentazione con cui la procura ha chiesto la chiusura delle indagini per il medico Alfonso Tumbarello,

accusato di avere favorito la sua latitanza.

Nato il 26 aprile del 1962, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio

1993. Ed esattamente trenta anni dopo anche lui viene arrestato, quasi nello stesso giorno e i due sono

legati anche dalle famoso archivio del capo corleonese che secondo il pentito Nino Giuffrè erano nelle mani del boss di Castelvetrano: “Riina era maniacale nel mettere insieme e conservare tutti i documenti, prendeva appunti anche alle riunioni e li metteva da parte e quelle carte sono finite a Matteo Messina Denaro”.

La sua latitanza è datata 2 giugno 1993. Uno degli ultimi avvistamenti è del 14 settembre 1993 proprio a Castelvetrano. Il racconto di quel giorno nel racconto di un investigatore dell’epoca. “Andammo al bar per un caffè e i nostri sguardi incrociarono quello di Matteo Messina Denaro. Allora il boss era ancora libero. Ci scrutammo a lungo, lui sapeva chi eravamo. Noi sapevamo tutto di lui, della sua famiglia e dei suoi amici politici. C’era una strana aria quel giorno”. Ed infatti qualche ora dopo il giovane boss partecipò insieme a Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano al fallito attentato al commissario Rino Germanà che, su mandato di Paolo Borsellino, indagava su Cosa Nostra nel trapanese.

Negli anni il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato ed è stato in gran parte smantellata la sua “rete di protezione” e non si è mai smesso di dare la caccia  al padrino che viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre. 

La latitanza, le donne, i soprannomi 

Da quel giugno 1993 è diventato un fantasma.

Nella provincia trapanese, lo ricordano ancora mentre in Porsche guidava verso il lido di Marina di Selinunte per andare nelsuo locale preferito dove si ritrovava con gli amici di sempre: Giuseppe Fontana, Leonardo Ciaccio, Ciccio Clemente e Francesco Geraci. Pantaloni Versace, Rolex Daytona, foulard. “Quando Riina lo incaricò di pedinare Falcone, Martelli e Maurizio Costanzo a Roma, a fine ’91, lui – racconta uno pentito, il mazarese Vincenzo Sinacori – trovava sempre il tempo di fare una buona scorta di camicie nel negozio più esclusivo di via Condotti e andava a mangiare nei locali più alla moda. Confuso fra la bella gente, perché lui, la faccia da vecchio mafioso siciliano proprio non ce l’ha”.

Attento a gestire la sua latitanza uno dei boss più ricercati del mondo ha alimentato l’immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e gli orologi costosi (anche quando è stato arrestato ne aveva uno al polso) . 

E poi le donne. All’inizio fu Andrea Hasleher , una ragazza austriaca che gli aveva fatto perdere la testa. Giovane e bella lavorava in un albergo di Selinunte. Matteo Messina Denaro, frequentava l’albergo e Andrea a un certo punto si trasferì in una villa di Triscina affittata dal boss. Di lei si era invaghito anche l’allora direttore dell’albergo, Nicola Consales, che nel 1991 sarà ucciso a Palermo con due scariche a bruciapelo dopo avere confidato ai suoi collaboratori che presto avrebbe messo alla porta “questi quattro mafiosetti” degli amici di Matteo. Le cronache raccontano che, dopo il delitto, Messina Denaro andò a trovare la sua amica in Austria. Intanto era nata un’altra storia con Francesca Alagna, sorella del commercialista di fiducia dell’ex patron della Valtur, Carmelo Patti, sospettato di essere un prestanome del padrino. Dalla relazione con Francesca Alagna nel 1996 Messina Denaro ha avuto una figlia Lorenza.

E poi c’è Maria Mesi che ha avuto anche una condanna per favoreggiamento per averlo ospitato e accompagnato durante la latitanza. Tra tutte le donne che gli sono state attribuite, lei è quella che forse ha contato di più nella vita di Messina Denaro: “Sei la cosa più bella che ci sia” è il messaggio che aveva affidato a uno dei “pizzini”, intercettati dagli investigatori. Maria pensava anche agli innocenti passatempi di Matteo come i videogiochi Nintendo, ancora di prima generazione. Attenzioni che si intrecciavano con le confidenze di due innamorati.

E poi i soprannomi Diabolik, con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi, ma anche “U siccu”. Uno è più legato alla tradizione della mafia e l’altro più moderno, più legato al suo volto amante della moda e del lusso. 

Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso sul solco della  ferocia criminale di Salvatore Riina e il pragmatismo politico di Bernardo Provenzano, ma soprattutto ha guardato al padre don Ciccio, morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito a sfuggire ai vari blitz nonostante la terra bruciata fatta intorno dagli investigatori a cui non sono sfuggiti neanche i suoi familiari come la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote.

Rimangono sulla sua figura tanti dubbi: dai rapporti con la massoneria, le piste estere (dalla Spagna a Dubai), da chi lo ha aiutato in questi trent’anni di latitanza, a chi ha coperto le sue tracce, ma anche dubbi se realmente sia stato l’erede di Riina e Provenzano e sulla sua reale capacità di ricostruire la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione. 

Di lui rimane l’immagine della foto segnaletica con i Rayban e quella dell’arresto con il giubbotto alla moda in mezzo a due carabinieri. Era questa la fine che voleva Diabolik?

Il riassunto della sua attività criminale 

Nel frattempo ha accumulato mandati di cattura e condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo

“Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi”, dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio. Nel 1989 il padre lo fece partecipare agli omicidi di 4 uomini d’onore della famiglia di Alcamo in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi, strangolati e sciolti nell’acido, come la mafia usava fare in quei tempi. A vent’anni Messina Denaro partecipò attivamente, assieme ai corleonesi, alla guerra contro le famiglie ribelli di Marsala e del Belice. Divenne il pupillo di Totò Riina. Era già un mafioso però prendeva l’indennità di disoccupazione dall’Inps, e se ne vantava. A 27 anni venne denunciato per associazione mafiosa.

Il primo a indagare e scrivere il nome di Matteo Messina Denaro in un fascicolo di indagine fu Paolo Borsellino nel 1989. 

Tra le tredici condanne all’ergastolo inflitte a 16 boss per la strage di Capaci c’è anche Matteo

Denaro. Nell’attentato del 23 maggio del 1992 morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca

Morvillo e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Fu tra i mandanti della

strage di via D’Amelio a Palermo, nella quale persero la vita il magistrato italiano Paolo Borsellino e cinque

agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio

Traina: era il 19 luglio 1992.

Nello stesso mese Messina Denaro fu tra gli esecutori materiali dell’omicidio di Vincenzo Milazzo (capo

della cosca di Alcamo), che aveva cominciato a mostrarsi insofferente all’autorità di Riina. Dopo pochi

giorni dopo, strangolò barbaramente anche la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, che era incinta di

tre mesi: i due cadaveri furono poi seppelliti nelle campagne di Castellammare del Golfo.

Il superlatitante è ritenuto responsabile anche della Strage dei Georgofili a Firenze avvenuta nella notte tra

il 26 e il 27 maggio del 1993 nei pressi della Galleria degli Uffizi, nella quale morirono cinque persone in

seguito all’esplosione di un’autobomba. Per la giustizia italiane è stato mandante anche della strage di via

Palestro a Milano, avvenuta il 14 maggio 1993, quando un’autobomba uccise cinque persone.

Si è risaliti a Messina Denaro anche per l’attentato di via Fauro a Roma, quando, il 14 maggio del 1993,

un’autobomba esplose nei pressi della casa del giornalista Maurizio Costanzo, all’epoca molto impegnato

nella lotta alla mafia. Sia Costanzo sia la moglie Maria De Filippo rimasero illesi, ma ci furono 24 feriti.

Nel novembre 1993, infine, il piccolo Giuseppe Di Matteo a soli 12 anni fu sequestrato su ordine di Messina

Denaro per costringere il padre Santino a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci: dopo 779 giorni

di prigionia, il piccolo Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere sciolto nell’acido.