Roma è candidata a ospitare l’Expo 2030. Una vetrina mondiale e un’opportunità irrinunciabile per una città definita «eterna», impegnata, ogni giorno, a difendere questa sua promessa.
Il Comitato promotore ha tratteggiato un appello coinvolgente per motivare le ragioni di un’assegnazione
alla nostra capitale: «[…] mettere al centro dell’attenzione l’uomo e la sua capacità di reinventare il proprio
“habitat”, la città, bilanciando sviluppo e sostenibilità ambientale. […] Roma vuole essere il centro di questo
nuovo modello di città: inclusivo, interconnesso, sostenibile e condiviso». Un programma coincidente con la
vocazione di una città che, se non ha dato vita all’Occidente, lo ha certamente allevato e diffuso, crescendo
una civiltà che ha concepito modelli di pensiero organizzativi, sociali, infrastrutturali nelle più diverse
discipline umane.
L’Expo «espone», è un gesto di vanità organizzato, che mostra il meglio delle prospettive del mondo, ne lucida le intenzioni e disegna orizzonti costruiti sulla ragionevolezza di ciò che conosciamo oggi e speriamo per l’immediato domani. Le Expo sono vetrine e, come tutte le vetrine, hanno bisogno di simboli, di sintesi, di richiami e ragioni che invitino il pubblico a cogliere in un istante una suggestione capace di modificare il tessuto di qualcosa, spesso già noto, come la città ospitante; immagini che accendano curiosità.
Intorno alle Expo del passato sono nate magie che si sono perpetuate nei secoli; a volte scaturite dalla
follia visionaria e dalla tenacia nel futuro di chi le intuì. Intuizioni pensate per una funzione e poi ritrovatesi
a rappresentarne altre. Alla Parigi del 1889 non mancava nulla per sentirsi la Parigi già conosciuta e
ammirata nel mondo. Aveva incontrato anche la decadenza di Napoleone III e si ritrovava nel fiume degli
entusiasmi tecnologici e intellettuali delle nuove scoperte industriali; nacque in quell’occasione l’idea di
dare vita a un simbolo, a una spettacolarizzazione, unica e dedicata, che rendesse memorabile l’ingresso
della loro Expo. E fu la Tour Eiffel.
Quella proposta scatenò giudizi sarcastici, feroci, addirittura scarnificanti, da parte di una delle più
eterogenee e autorevoli alleanze di intellettuali di cui la capitale francese, in quel momento di esplosione
culturale, poteva vantarsi. Conosciamo tutti l’epilogo di questa storia e di quella struttura nata come
transitoria e trasformatasi nell’orizzonte definitivo della città, segno scenografico e sentimentale
irrinunciabile. I francesi, avrebbe potuto chiosare Flaiano, tradiscono il loro amore per l’Italia anche
imitandone i suoi difetti («Il provvisorio che si trasforma in definitivo»).
Roma straborda d’immagini e artifici visivi, perché dunque aggiungerne altri? Per rinfrescare la cultura
barocca dell’effimero e dare vita a un feticcio come per i parenti d’oltralpe? Per costruire un’operazione di
marketing del turismo e della comunicazione tanto temporanea quanto evanescente? Perché non
concentrarci su ciò che già possiede, che il mondo conosce e che aspetta solo di essere lustrato,
valorizzato, nobilitato? Perché magari le cose potrebbero tranquillamente convivere e sono le nuove sfide
che consentono alla vita di non guardarsi i piedi e di cercare la strada di fronte a sé.
Nella storia umana non mancano invenzioni che, quanto più fuori scala, tanto più hanno attraversato il mondo nelle sue narrazioni, diventando leggenda. Almeno due di questi giganteschi simulacri facevano parte delle «Sette Meraviglie» dell’antichità. Poi quelle forme e imitazioni hanno cominciato a viaggiare per i continenti e a diffondersi tra i più diversi popoli. Ed è curioso il fatto che chi ha poca storia enfatizzi quello che ha, sconfinando a volte nella fantasia, e chi ne ha troppa si perda nell’eccesso delle proprie possibilità di racconto.
Per esempio, da alcuni secoli, il monumento più visitato e iconico della nostra capitale e del nostro Paese, il Colosseo, ha smarrito il senso del suo etimo. Colosso, statua di grandi dimensioni, identifica quello che è l’Anfiteatro Flavio. Ma il suo nome è legato alla statua colossale voluta da Nerone e, successivamente, fatta collocare da Adriano sul piano dello stesso; un basamento (come per la Statua della Libertà a New York, realizzata sempre in concorso con il genio di Eiffel) ne elevava l’altezza per farla allineare con quella dello stadio. Da quel momento, la forza dell’immagine cancellò il nome originale dell’arena e si perpetuò anche al di là della scomparsa della stessa statua (l’Anfiteatro Flavio è sotto i nostri occhi e continua a chiamarsi Colosseo invogliando imitazioni in tutto il mondo).
Perché, per il 2030, in questa occasione unica e irripetibile che l’Expo rappresenta per raccontarsi al mondo, non alimentiamo la scelta di avere l’uomo al centro del racconto? Roma è la città di Vitruvio, siamo il Paese del Rinascimento, crasi di questa centralità dell’Uomo e della riscoperta della Classicità. Perché non dare la possibilità, oggi, di rivivere l’ombra di quel gigantismo offrendo l’opportunità a una prestigiosa giuria (magari degna di quella del governatore Soderini, che per decidere il luogo dove posizionare il David chiamò Perugino, Botticelli, Filippino Lippi, Andrea della Robbia, Antonio e Giuliano da Sangallo, Leonardo e altri giganti…) di selezionare un numero a piacere di grandi nomi nazionali e internazionali protagonisti dell’arte contemporanea (da Damien Hirst a Jeff Koons, da Anselm Kiefer a Maurizio Cattelan e che ognuno proponga i suoi) capaci di realizzare un’opera temporanea?
Non avrebbero l’obbligo dell’imitazione, non essendoci arrivate del Colosso altre immagini che quelle ricavate da imprecise monete (esistono infinità di fantasie ricostruttive e un affascinante studio di Carlo Aymonino). L’opera potrebbe declinare i valori di sostenibilità nelle soluzioni tecniche e ingegneristiche costruttive più all’avanguardia, consentendo ai visitatori di accedere al suo interno e godere di prospettive mai viste dei Fori. E a decidere quale scegliere tra le opere selezionate dalla giuria, potrebbe essere una platea planetaria (di studenti in arti visive, architettoniche e artistiche) a celebrazione di un mondo sempre più digitale e connesso.
Sarebbe una sintesi di quella potente proposta di candidatura che cita «l’evoluzione e la rigenerazione come capacità di innovarsi e trasformarsi per risorgere e guardare avanti, a partire dal proprio passato; l’interculturalità e la diversità come sinonimo di creatività, arricchimento e condivisione necessari per la crescita; capace di riflettere sull’impatto delle nostre azioni attraverso scelte sostenibili e un utilizzo responsabile delle nostre risorse». Un Colosso della Rinascita, capace di riconsegnare al mondo un’immagine dell’inesauribile forza e storia di questa città eterna.
Parte delle decisioni che verranno prese per l’edizione romana dell’Expo nel 2030 dipenderanno dall’esito delle elezioni politiche del 25 settembre.
* Luca Josi per 5 anni, fino al 2021, ha guidato la comunicazione del gruppo TIM e, come direttore artistico per Fondazione TIM, ha curato uno dei maggiori progetti di mecenatismo italiano: il recupero del Mausoleo di Augusto a Roma, per cui è stato premiato con il Leone del Festival della Creatività di Cannes e il Webby Awards di New York.
* Antonio Romano, fondatore di Inarea, opera da oltre quarant’anni nel campo del design della comunicazione ed è considerato uno dei massimi esperti di brand design. Si è occupato, in ambito culturale, dell’identità della Biennale di Venezia, del MaXXI di Roma, del sito archeologico di Pompei, dei Musei Vaticani e della Città delle Arti e della Cultura della nuova capitale amministrativa egiziana.
Immagine di copertina: Il Colosso di Carlo Aymonino ideato nel 2001 con Aldo Aymonino, Sandro Giulianelli, Maria Luisa Tugnoli. Foto Roberto Chiovitti